
La selezione della rappresentanza
Ci rifiutiamo di credere che questa classe politica sia rappresentativa. Ci rifiutiamo di credere che essa sia, come ci dicono, specchio fedele del nostro Paese, specchio fedele di quello che siamo. A questa visione non vogliamo rassegnarci, non l’accettiamo. Ma c’è di più: siamo anche convinti che ci sia una connessione fra la capacità di guidare un paese e il grado di rappresentatività di chi ha la pretesa di governarlo. Insomma, noi pensiamo che il degrado dell’Italia dipenda dal fatto che essa non è governata, è che non lo sia anzitutto perché non è rappresentata.
Tuttavia, la questione non si riduce, e tanto meno si risolve, guardando solo in alto: verso le istituzioni e verso chi oggi le occupa. Se abbassiamo lo sguardo, c’è un deserto fatto di inconsapevolezza: la nostra!
Il problema cruciale della rappresentanza è totalmente estraneo all'opinione comune e viene sistematicamente ad esaurirsi in quella visione che riduce al suffragio elettorale il più ampio e complesso gioco della democrazia. È una visione, ovviamente, alimentata dalla classe politica corrente, la quale ha tutto l’interesse ad invocare il voto come momento esaustivo di ascolto e di inclusione, e di conseguenza come esclusivo parametro legittimante. Ma è una visione che collide, smontandosi, con la sua stessa, palese inconsistenza.
Della “pochezza” del voto, in ogni occasione, ci rendiamo conto immediatamente dopo averlo espresso, ma non ci preoccupiamo di riflettere, di analizzare. Scavalchiamo il momento della elaborazione e preferiamo scivolare pigramente nello scetticismo, nella diffidenza verso il sistema nel suo complesso, in un’idea contraffatta della democrazia, assimilata alle ragioni e al valore delle rivendicazioni più svariate ma ritenuta, al contempo, cronicamente inabile ad essere strumento utile alla loro affermazione. Nella società è sempre vivo il desiderio di partecipare, fermenta e si manifesta per i problemi e nei contesti più diversi, è in ogni rivendicazione, è in ogni istanza, ma è sempre accompagnato da questa diffidenza, come se le armi per incidere che la democrazia ci consegna fossero inadeguate, insanabilmente difettose. Questa diffidenza contamina, fin dal principio, le speranze di cambiamento che si accendono e, ogni volta, si spengono sempre, insieme alla miccia genuina che le genera, senza costrutto. In questi anni ne abbiamo avuto numerose conferme: abbiamo assistito più volte alle convulsioni di uno spirito partecipativo che si infiammava per poi consumarsi sempre con la stessa, identica inconcludenza.
L’impotenza, la sterilità con cui si scontra puntualmente il desiderio di partecipazione non fa che accrescere la sfiducia nel sistema, ma anche in noi stessi: nella nostra capacità di saper individuare i meccanismi più efficaci per farlo funzionare. È una sfiducia che sconfina, poi, nel rifiuto stesso di cercarli questi meccanismi, e dunque nella rassegnazione, nell'accettazione passiva di una ineluttabile immutabilità che ci spinge a ripiegare nei social media o in altri strumenti dalle potenzialità circoscritte nella mera denuncia; oppure a sperare, rimanendo però prudentemente inerti, in una mobilitazione eterodiretta per la quale, tuttalpiù, siamo disposti a fare il tifo.
Lo ripetiamo: non è evidente, ma il corto circuito che genera questo deprimente avvitamento è proprio il problema, irrisolto, della selezione della rappresentanza politica. Siamo indotti a pensare che votare a destra o a sinistra, il partito Ics o il partito Ipsilon, Tizio o Caio rappresenti una scelta; siamo indotti a ritenere che favorire ora l’uno e ora l’altro schieramento politico permetta quell'avvicendamento delle maggioranze di governo che, ci viene detto, costituisce una dinamica essenziale per la democrazia. Ma questo gioco, esclusivamente “orizzontale”, è del tutto insufficiente. Manca il cambiamento, quello vero, che non ha nulla a che vedere con tutto ciò, perché il vero ricambio è quello che proviene dal basso, dalla società: politicizzata, attenta alle cose della politica ma senza alcuna possibilità di incidere, di contribuire, di partecipare. E’ l’avvicendamento verticale la vera lacuna del nostro sistema politico: un avvicendamento che il voto, da solo, non garantisce. Il suffragio elettorale costituisce solo una parte dei processi di selezione: è il momento che chiude, che finalizza una serie di prerogative anteriori senza le quali il voto è svuotato, fragile, incapace di trasmettere forza legittimante. Senza un efficace meccanismo di selezione della rappresentanza, il voto continuerà ad essere un esercizio vano, che non costituisce una scelta e non offre nessuna autentica alternativa.
Gli strumenti con cui è possibile costruire nuovi processi per la selezione politica si chiamano “partiti”. La selezione della rappresentanza è una funzione naturale dei partiti, una funzione che essi assolvono anche quando non ne sono capaci. E oggi non lo sono! Non lo sono neanche minimamente. Tuttavia essi restano gli unici strumenti con cui è tuttora possibile aspirare alla partecipazione politica: i partiti sono i laboratori dove possiamo sperimentare alchimie inedite per aggiustare i meccanismi della selezione, per inventarne di nuovi, per rivedere e ripensare tutta la fase che precede e che segue quella del suffragio elettorale. E per questo che la costruzione di un modello inedito di partecipazione democratica è la risposta: la risposta con la “R” maiuscola, cioè la risposta più sensata, più concreta e più credibile a quella domanda di cambiamento che ci facciamo da tempo immemore ma che in concreto ci coglie sempre, sistematicamente impreparati.
E questa risposta ci dice una cosa, anzitutto: questo cambiamento è tutto nelle nostre mani! Ricostruire le condizioni della partecipazione democratica è un compito che possiamo assumere direttamente e da subito.
Perciò, augurateci buon lavoro!